Lasciate ora che passi al secondo discorso che può registrare l'infinito passaggio al postmoderno: il discorso sull'altro culturale. Qui, di nuovo, metterò in luce solo tre momenti.
Il primo, la metà degli anni Trenta nell'Europa occidentale, può essere illuminato da una netta sovrapposizione.
Nel 1931 si tenne a Parigi una massiccia esposizione sulle colonie francesi, cui i surrealisti (rappresentati da Louis Aragon, Paul Eluard e Yves Tanguy) risposero con una piccola mostra anti-imperialista dal titolo La verità sulle colonie.
Questi artisti non solo apprezzavano l'arte tribale per i valori formali ed espressivi, come i cubisti e gli espressionisti prima di loro; essi partecipavano anche alle sue ramificazioni politiche nel presente.
Senza dubbio costruirono un'identificazione chiasmatica con i moderni ereditieri di quest'arte, che nell'appropriazione compiuta dall'Occidente venivano fatti scomparire.
Da una parte, i surrealisti consideravano gli oppressi coloniali come i lavoratori sfruttati dall'Occidente, da sostenere nello stesso modo (un pannello in mostra citava Marx: "un popolo che ne opprime altri non sa di essere libero" - sic!1).
Dall'altra, i surrealisti annunciarono che anche loro erano primitivi e che, come moderni abbandonati al desiderio dell'oggetto, anche loro erano feticisti (una mostra di piccole figure folcloriche fu etichettata Feticci europei).
In effetti, essi trasferirono il valore della rivalutazione del feticismo messa in atto nelle analisi dei feticismi della merce e sessuali.
Se Marx e Freud usarono la perversione come critica dei soggetti europei moderni, i surrealisti la presero come un complimento: abbracciarono l'alterità del feticista per il suo potenziale distruttivo, associandolo all'altro culturale e all'inconscio2.
Sotto questo aspetto il soggetto surrealista è altro rispetto al soggetto fascista immaginato da Lacan.3
Ma, come notavo nel capitolo precedente, l'associazione rimaneva primitivista, cioè dipendeva da un'analogia razzista tra popoli "primitivi" e stadi primari della vita psicosessuale4.
E questa fu messa a servizio di un proposito disastroso tra le diverse politiche culturali dei nazisti. Intorno al 1937 i nazisti avevano prodotto ignobili mostre su arte, letteratura e musica "degenerate" che condannavano ogni moder-nismo, ma soprattutto chi metteva in relazione l'altro culturale e l'inconscio, cioè le arti "del primitivo", del bambino e del pazzo, per spiegare l'alterità dirompente di queste figure aliene.
Il fantasma primitivista, figura ideale per i surrealisti, terrorizzava il soggetto nazista che invece lo associava ad ebrei e comunisti, poiché rappresentava le forze degenerate che mettevano in pericolo l'identita armata (dall'interno e dall'esterno).
Se i surrealisti abbracciarono il primitivo, i fascisti lo resero abietto, lo aggredirono.
Per i surrealisti il primitivo non era abbastanza vicino; per i fascisti lo era sempre troppo.
Alla metà degli anni Trenta, un periodo di reazione in patria e di rivolta nelle colonie, la questione dell'altro per l'europeo, sia di sinistra che di destra, diventò una questione di distanza corretta. Prendo a prestito questo termine ambiguo (con la sua nota di disprezzo) da Catherine Clément, la quale notava come, proprio nel momento in cui Lacan consegna lo scritto sullo stadio dello specchio vicino alla Germania nazista, Lévi-Strauss era in Amazzonia al lavoro sull'"etnologico equivalente dello stadio dello specchio": "In entrambi i casi la questione coinvolta e quella della distanza corretta"5.
Cosa significa ciò nel caso di Lacan è chiaro, lo stadio dello specchio riguarda la negoziazione di una giusta distanza tra l'io in erba e la sua immagine, tra il bambino e chi si prende cura di lui. Ma che cosa poteva mai significare per Lévi-Strauss?
Una prima risposta è che anche in questo caso si tratta della negoziazione di una giusta distanza, in questo caso una triangolazione tra il partecipante-osservatore antropologico, la cultura di casa e la cultura di studio6.
Ma alla metà degli anni Trenta, quale poteva essere la giusta distanza per Lévi-Strauss, amico (come Lacan) dei surrealisti, un ebreo fuggito dall'Europa all'apice del fascismo?
Per un antropologo che tanto ha fatto per criticare la categoria di massa, per riconsiderare "il pensiero selvaggio" in chiave logica e la mente moderna in chiave mitica, l'estremismo fascista della disidentificazione dall'altro era disastrosa, ma anche la pulsione surrealista ad una sovridentificazione poteva essere pericolosa.
Mentre la prima distruggeva brutalmente la differenza la seconda era forse troppo ansiosa di appropriarsene, di diventare in qualche modo la differenza stessa.
Era necessaria una certa distanza dall'altro.Lévi-Strauss riconobbe questo pericolo solo nei primitivismi psicologici dell'arte surrealista, o anche negli esperimenti antropologici del Collège de Sociologie?7
Vent'anni dopo, con la pubblicazione di Tristi tropici (1955), Lévi-Strauss riformula la questione della distanza corretta.
La paura primaria dell'altro non derivava più dal fascismo ma da una "monocultura", cioè, dall'intrusione dell'Occidente capitalista sul resto del mondo. Lévi-Strauss arriva a prevedere intere isole polinesiane trasformate in portaerei, i continenti di Asia e Africa diventati sobborghi sporchi e baraccopoli8.
Questa visione fatalista di un mondo esotico in declino che situa la sua autenticità in un passato intatto e problematico, soprattutto dal momento in cui il rimorso per la purezza dell'altro, disperse laggiù, può trasformarsi velocemente in una reazione contro l'altro sporco, che si trova qui9.
Eppure è coerente con la discussione liberale dell'altro culturale dagli anni Sessanta in poi.
Nessun dubbio a proposito delle guerre di liberazione, dall'Algeria al Vietnam, questa discussione era una farsa crudele per l'altro, in ritardo nel suo coinvolgimento dopo decadi di violenza colonialista.
Come si potrebbe parlare, chiedeva Frantz Fanon, di distanza corretta quando la violenza era inscritta sui corpi e nelle menti di colonizzati e colonizzatori?
Ma la corretta distanza interessa Fanon nel testo Sulla cultura nazionale, pubblicato per la prima volta al "2° Congresso degli scrittori e artisti neri" tenutosi a Roma nel 195910.
Qui, grazie alla riscrittura della dialettica servo-padrone, Fanon distingue tre fasi nel rinnovamento delle culture nazionali.
La prima avviene quando l'intellettuale nativo assimila la cultura del potere coloniale.
La seconda inizia quando l'intellettuale è richiamato alle tradizioni native, che tende a trattare esoticamente (socialmente rimosso, come spesso succede con lui o lei), come tanti "frammenti mummificati" di un passato folkloristico.
Per finire, la terza fase inizia quando l'intellettuale, che ora partecipa alla lotta popolare, aiuta a forgiare una nuova identità nazionale in attiva resistenza contro il potere coloniale e in una contemporanea codificazione delle tradizioni native. >
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Anche in questo caso la questione è di una distanza corretta, ma stavolta è ribaltata, richiesta dall'altro: come si può negoziare una distanza dal potere coloniale, ma anche dal passato nativo? Come rinnovare una cultura nazionale che non sia neo-coloniale o auto-primitivista?
Come lasciare indietro "l'osceno narcisismo" dell'Europa "dove non vengono mai fatti discorsi sull'uomo" e non cadere in un separatismo trionfale di reazioni razziali?11
Anche in questo caso la questione è di una distanza corretta, ma stavolta è ribaltata, richiesta dall'altro: come si può negoziare una distanza dal potere coloniale, ma anche dal passato nativo? Come rinnovare una cultura nazionale che non sia neo-coloniale o auto-primitivista?
Che cosa è successo alla problematica della distanza?
Definire il nostro mondo postcoloniale significa mascherare la persistenza di relazioni coloniali e neo-coloniali; significa anche ignorare che, così come c'è sempre stato un primo mondo in ogni terzo mondo c'e sempre stato un terzomondo in ogni primo mondo12.
Ma il riconoscimento della mancanza di distanza e postcoloniale, senza dubbio postmoderno, almeno nel grado in cui il mondo moderno era spesso immaginato in termini di opposizioni spaziali non solo tra cultura e natura, città e campagna, ma anche tra nucleo metropolitano e periferia imperiale, l'Occidente contro tutto il resto.
Oggi, almeno nelle economie riorganizzate secondo il modello post-fordista, simili spazi non orientano molto e i poli sono in qualche modo implosi; il che non significa che si sono sciolte le gerarchie di potere, semmai si sono trasformate.
Tuttavia, per la mia analisi, la domanda è: come sono stati registrati nella storia recente questi cambiamenti a livello mondiale?
La decostruzione di Derrida affonda nel disfacimento di simili opposizioni che sono alla base del pensiero occidentale, e l'archeologia di Foucault si fonda sul rifiuto di simili fondamenta. I poststrutturalismi elaborano criticamente gli eventi postcoloniali e postmoderni?
O se ne servono come stratagemmi laddove questi eventi sono sublimati, spiazzati o disinnescati in altro modo? Oppure fanno entrambe le cose?
Nel mondo moderno, l'altro culturale con cui ha dovuto fare i conti nel corso dell'impero, ha provocato una crisi dell'identità occidentale che alcune avanguardie hanno affrontato con il costrutto simbolico del primitivismo, il meccanismo di riconoscimento-e-disapprovazione feticistico dell'alterità.
Ma questa soluzione era anche una repressione, e l'altro è ritornato proprio nel momento in cui pensavamo che fosse scomparso: ritardato dai moderni, il suo ritorno è diventato l'evento del postmoderno. In un certo senso, l'incorporazione dell'alterità da parte del moderno ha posto le basi per la sua irruzione nel postmoderno sotto forma di differenza.
Questo potrebbe essere ciò che nasconde tra le righe il poststrutturalismo, come quando Derrida proclama la fine di ogni "significato originale o trascendentale [...] al di fuori di un sistema di differenze"13.
Questa tendenza rimane tra le righe proprio perché spesso il poststrutturalismo non ha saputo rispondere alla richiesta fanoniana di riconoscimento, e ha continuato a connotare l'altro come esterno, come spazio di fuga ideologica dalla razionalità occidentale.
Perciò tutti gli esotismi epistemologici (oasi neo-orientaliste e rifugi neo-primitivisti) che appaiono nel paesaggio post-strutturalista: la calligrafia cinese in Derrida che "interrompe" il logocentrismo dell'Occidente, l'en-ciclopedia cinese in Foucault che confonde l'ordine occidentale delle cose, le donne cinesi che affascinano Kristeva con identificazioni alternative, il Giappone di Barthes che rappresenta "la possibilità di una differenza, di una mutazione, di una rivoluzione nella proprietà dei sistemi simbolici”14, il nomadismo come spazio altro che per Deleuze e Guattari attraversa la territorialità capitalista, la società altra dello scambio simbolico che secondo Baudrillard materializza il nostro ordine di scambio delle merci, ecc.
Eppure, se il poststrutturalismo non trova una corretta distanza, almeno ha reso problematica la posizione di differenza come opposizione, l'opposizione tra interno ed esterno, soggetto e altro.
Questa critica si ritrova nel discorso postcoloniale così come negli studi omosessuali, e il poststrutturalismo e stato più produttivo in questo campo nell'ultima decade (il lavoro di Homi Bhabha sul ritardo della modernità al di là dell'Occidente è pertinente alla mia discussione15).
A questo proposito, non possiamo licenziare il poststrutturalismo come ultimo nome appropriato dell'Occidente più di quanto non possiamo fare con il postmoderno.
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1 - [N.d.R. Proprio così è stata erroneamente tradotta la frase di Marx “un peuple qui en opprime d’autres ne saurait ètre libre”, giusta: “un popolo che opprime un altro non può essere libero”, cfr. immagine a pag. 14). D’altronde non è l’unica imprecisione. Ad esempio si noti che l’esposizione del 1931 era internazionale e non limitata alle colonie francesi. Oltre ai singoli padiglioni delle colonie francesi vi erano quelli del Belgio, Danimarca, Stati Uniti, Regno Unito, Paesi Bassi, Portogallo e Italia, un padiglione delle Missioni Cattoliche e uno delle Missioni Protestanti.
2 - Anche lo statuto del soggetto nel multiculturalismo è ambiguo. Da una parte, anche se le critiche multiculturali moltiplicano il soggetto, spesso ne ristabiliscono la logica. Dall'altra, non possono opporsi alla morte del soggetto, poiché sono preparati anche da questo discorso. Su quest'ultimo punto vedi Ernesto Laclau, "Universalism, Particularism, and the Question of Identity", October 61, estate 1992.
3 - In "Armor Fou" e Compulsive Beauty, MIT Press Cambridge 1993, deduco che alcuni surrealisti (come Hans Bellmer) contrastarono il soggetto fascista con immagini del corpo frammentato, mentre altri (come Bataille) lo fecero contro tropi dell'informe e dell'acefalo.
4 - Sull'(ab)uso modernista di questa analogia vedi il mio "'Primitive Scenes", Critical Inquiry, autunno 1993.
5 - Catherine Clément, The Lives and Legends of Jacques Lacan, Columbia University Press, NewYork 1983, p.76.
6 - In Tristi tropici (1955) Lévi-Strauss commenta in retrospettiva: "Non si sfugge al dilemma: o l'etnografo aderisce alle norme del suo gruppo e le altre non possono ispirargli che una curiosità passeggera da cui la disapprovazione non è mai assente; o egli riesce ad abbandonarsi totalmente ad esse, e la sua obbiettività resta viziata dal fatto che, volendo o non volendo, per darsi a tutte le civiltà si è rifiutato almeno a una. Egli commette dunque lo stesso peccato che rimprovera a coloro che contestano il senso privilegiato della sua vocazione" (Tristes Tropiques, Atheneum, NewYork 1978; [trad. it.;, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 371-72]).
7 - Questa è solo una mia congettura. I suoi riferimenti scritti sono scarsi e abbandonati alla memoria: alcune notazioni sugli interessi primitivisti condivisi con André Breton, Max Ernst e Georges Duthuit a New York in The Way of the Masks (1975) e Lo sguardo da lontano (1983), e in una nota del 1947 sul Collège de Sociologie (ristampato in Denis Hollier (a cura di), The College of Sociology, University of Minnesota Press, Minneapolis 1988, pp. 385-86).
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8 - Lévi-Strauss, Tristi tropici, pp. 35-42.
9 - In altre parole, anche "distanza corretta" e potenzialmente un ideologema primitivista. Potrebbe non essere interamente libera dalla mappatura evoluzionista di tempo su spazio, mentre "allora" era conflagrato con "laggiù", con il più remoto segnalato come il più primitivo – una mappatura che è resa ancora più assurda dall'implosione multinazionale del centro metropolitano e della periferia imperiale. (Per la retorica del salvataggio in Lévi-Strauss, vedi James Clifford, "On the Salvage Paradigm", in Hal Foster (a cura di), Discussions in Contemporary Culture, Bay Press, Seattle, 1987).
10 - Vedi Frantz Fanon, The Wretched of the Earth (1961), trad. Constance Farigan, Grove Press, New York 1968, pp. 206-48, [trad. it.: I dannati della terra, Edizioni di Comunità,Torino 2000].
11 - Ibid; pp. 313, 311. Come notato nel capitolo 6, Fanon sentiva che il movimento della nègritude s
arebbe stato vinto da quest'ultima tendenza. Per una risposta europea contemporanea alla problematica della distanza, vedi Paul Ricoeur, "Universal Civilization and National Cultures" (1961), in History and Truth, Northwestern University Press, Evanston 1965.
12 - Questa dinamica e esplorata nel lavoro di Trinh T. Minh-ha.
13 - Jacques Derrida, Writing and Difference, University of Chicago Press, Chicago 1978, p. 280, [trad. it.: La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino1971].
14 - Roland Barthes, The Empire of Signs (1970), Hill & Wang, New York 1982, pp. 3-4 [trad. it.: L'impero dei segni, Einaudi, Torino 1971]. Gli altri testi a cui faccio riferimento qui sono rispettivamente, Della Grammatologia, Le parole e le cose, Le cinesi, L'anti-edipo, e Lo scambio simbolico e la morte.
15 - Vedi Homi K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London 1994 [trad. it.: I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001].
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